Una valigia per il Messico

Storia di un'amicizia davvero particolare

Calibro, barometro, due lamette Bic, un set completo di pinze e pinzette piatte e a punta curva, un Phmetro , densimetro, un pacchetto di preservativi, la dentiera, una macchina fotografica con un paio di obbiettivi Zeiss, una manciata di elastici, uno per capelli, microscopio, la riproduzione saponaria del suo dio cane, un paio di cambi. Una valigia cartone con cintura da uomo, un vestito da donna “alta moda” da regalare a chi sa chi, comprato al banco del mercato di via Ampere l’ultimo gioverdì, una lettera, l’orologio Casio del Marcel, e una copia della Shakira collection. Un paio di numeri di Astronomia, il suo telescopio Backer Smidth di cui andava fiero, e il pinzato di questa matita: Milano, 29 Marzo 2007. Enzo, amico mio!… ed ora?, senza di te?

Il primo incontro

Scendeva tutti i giorni al Lambro ma si sentiva già sulla curva in via Feltre. Un abbaiare e un “Dio Caneee!!!” intervallo urlato in un mezzogiorno mai puntuale. La prima volta non li avevo visti arrivare e lo stesso kebab solo quando oramai era troppo tardi. Poco dopo un urlo seguito da un magro signore da sopra la montagnetta diceva: “Caccia quei cani! Dagli un calcio, che se ne vanno!”, ma era veramente troppo tardi. Confessò poco dopo la falsa, “così se avviso… Non possono dirmi ogni volta di pagare il panino!”. “Una volta la madre si è fregata pure una braciola dalla carbonella dei Thamil!”. Scese lento, si aggiustò baffi e pizzetto, e con fare amico consolidato “Vieni qua spesso?”. Un sorriso a 12 denti e mi indicò, complice, il numero del Manifesto che avevo poggiato al portapacchi della bici!
Ricambiai con un “non spesso” e un sorriso complice. Lui si sedette senza che glielo chiedessi rifacendosi a nuovo la coda bianca. Il giorno dopo suonavo M51 in via … tra Galimberti e Dott. Sileni.  Dopo un po’ di attesa quasi da secondo squillo, mi rispose la sua voce sotto un abbaiare di cani che friggeva il citofono. Incazzata “Basta! Silenzioooo!”, poi curiosa “Chi è?”, “Giacomo”, risposi. Riattaccò e mi aprì!
Senza conoscere il piano iniziai a salire le scale del palazzo controllando M51 ad ogni porta. Al terzo piano mi venne il dubbio di non aver controllato quelle al rialzato ma dopo uno sguardo in alto alla tromba delle scale, mancavano due piani, proseguii seguendo il richiamo di cani. Alla quinta rampa guardai le ultime fatiche che mi aspettavano, dove in una confusione da discarica si riconosceva in mezzo a sacci neri, cassette di legno e di cartone, una vecchia bicicletta da corsa arrugginita legata alla ringhiera. Salii gli ulimi gradini stando attento di non inciampare. Sull’ultimo… due, due litri, fondi di Coca’Cola e uno di Whitsky scozzese, ed infine una strana macchina che occupava quasi la metà del pianerottolo. Pareva una di quelle per fare i vasi di creta. Sopra, lo scheletro secco di un bonsai. Una porta di metallo arrugginito segnava M51. A fianco un’altra rampa di scale, che prima non avevo visto, ma quasi bloccata al passaggio da ancora e ancora scatole e una quantità di chissà cosa fino al solaio. Sopra il campanello, un cartello Attenti al cane, con un 3 scritto a mano. Suonai e suonò una sirena e poco dopo un altro “Basta.. Silenzio!!”, questa volta più scocciato, mi si aprì la porta, mentre spuntavano dai primi centimetri di uscio tre musi ringhianti a cui porgevo impaurito e lento la mano a palmo per farmi annusare, per un essere amico, sperando anche di essere accettato, poi tre sorrisi aguzzi e incuriositi e infine loro, Alfi, Nime e Sofia i tre Doberman che mi avevano fregato il pranzo. Mi abbaiavano ma per un istante pensai di essere fuori pericolo, quando scorsi lo scodinzolare dei loro moncherini. Ad ogni modo non potevo più ritirarmi, anche avessi sbagliato presentimento, mi avrebbero sbranato, era troppo tardi oramai per cedere all’incerto per il certo. Un “BASTA!!.. DIOCANE!!”, urlato con tutta l’aria in corpo, azzittì i cani. Seguì un sospirato “Avete rotto i coglioni..!”. La porta quasi aperta del tutto finì per sbattere contro un qualche cosa. Da dietro Enzo, sessantacinquenne stecco come mai non avevo visto nessuno fino a quel giorno in vita mia, se non nei filmati che ogni anno davano in televisione il giorno della memoria per le vittime dell’olocausto, in tenuta libera d’agosto: mutande e ciabatte infradito.
E poi ancora, dietro di lui, un mondo che farò fatica a descrivere. Un mondo di oggetti, scoperte, invenzioni, conoscenze e interessi di cui gliene sarò sempre grato.

Giacomo Satti, 2007